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“Come può la memoria servirti o tradirti quando dipendi da lei?” è da questo quesito che sembra articolarsi Sucker Punch, quinto lungometraggio firmato da Zack Snyder, una mirabolante discesa nella “tana del bianconiglio”, là dove percezione, immaginazione e memoria si fondono in un tutt’uno oniricamente ambiguo.
Babydoll viene fatta rinchiudere dal padre in un istituto psichiatrico con la volontà di farla lobotomizzare: nel disperato tentativo di liberarsi dalla sua condizione di prigionia la ragazza elabora con la fantasia un complesso piano di fuga che valica i confini della realtà. Inizierà così una lunga avventura durante la quale la giovane, accompagnata da alcune compagne di disgrazia, dovrà impadronirsi di cinque talismani: una mappa, una fiamma, un coltello, una chiave e un “quinto oggetto” misterioso, che solo lei potrà riconoscere.
Definito dal proprio regista “Alice nel Paese delle meraviglie con i mitragliatori”, Sucker Punch si attesta nel territorio di confine fra realtà e percezione, giocando sull’ambiguità e l’irrazionalità del sogno: articolandosi sinuosamente attraverso le riletture simboliche degli ambienti, Zack Snyder imposta una macchina da intrattenimento accattivante ma forse non sempre efficace nel cogliere nel segno. Se visivamente la cifra stilistica del regista di 300 e Watchman è inconfondibile e di sicuro effetto,ciò che appare fin troppo incerto ai fini della tenuta generale della struttura del film è un impianto della sceneggiatura estremamente semplice, sul quale viene gradualmente congegnata una vasta e articolata sovrastruttura che ben presto rivela i suoi limiti soprattutto a livello di prevedibilità dell’azione. Nel lungo percorso che conduce Babydoll e le sue compagne fra zombie samurai, draghi e pistoleri meccanici sembra mancare un vero equilibrio fra la divertente e riuscita tracotanza visiva e una troppo esile impalcatura narrativa.
Fuga, speranza e salvezza sono i tre cardini sui quali si impernia lo schema di Sucker Punch, parabola sul potere della propria volontà e dell’importanza della determinazione: una morale semplice, da favola moderna, che ben si adatta al tipo di lettura che Snyder sceglie di dare alla pellicola, che fa rivivere le eco del classico scontro fra Bene e Male, contestualizzandolo in una micro-comunità tutta al femminile dove lo scontro con gli “uomini del potere” e la liberazione dalla loro schiavitù (l’istituto psichiatrico nei sogni di Babydoll si trasforma in un bordello) acquista anche una sottile ispirazione all’emancipazione sessuale.
In questo senso è interessante evidenziare il ruolo dei costumi ai fini della definizione del sottotesto della pellicola: Michael Wilkinson ha lavorato sul concetto di fusion ultra-temporale, accostando capi d’abbigliamento provenienti da contesti storici profondamente differenti e che si adattano di volta in volta agli ambienti nei quali le protagoniste si trovano a combattere. L’elemento caratterizzante di tutti i costumi è il costante richiamo ad alcuni dei più classici archetipi della seduzione femminile e, fra guêpière e giarrettiere, l’immagine delle protagoniste si avvale del confronto/scontro fra l’elemento sexy e la violenza propria delle loro azioni.
Il dato del simbolismo torna diverse volte nel corso dello sviluppo della storia, dando vita a una fitta ragnatela di rimandi più o meno evidenti, che vanno dalle rispondenze architettoniche nelle location – tutti gli ambienti onirici in cui si muovono le ragazze riflettono le caratteristiche della clinica – a più tangibili segnali di parallelismo mentale. A tutto ciò si aggiunge il continuo riferimento all’infanzia e all’innocenza rubata, che si rispecchia nei dettagli bambineschi che talvolta ricorrono nel corso della pellicola (i ciondoli agganciati al calcio della Colt di Babydoll ne sono un esempio) ma che soprattutto sembrano dirigersi nella chiave di rilettura dei più tipici emblemi della fanciullezza – i giocattoli, i peluche – che pare quasi attingere all’immaginario estetico gotico.
Snyder ha dichiarato di aver raccolto spunti d’ispirazione da innumerevoli fonti, fra cui Ai confini della realtà e gli scritti di Richard Bach, ma più in generale è evidente il ricorso agli stilemi dell’universo letterario fantasy, combinati con l’approccio ultra-pop dei combattimenti: Sucker Punch trae da questa moltitudine di suggestioni la propria natura ibrida, che cerca – non senza difficoltà – di affiancare all’immediato “impatto fisico”del film, una natura più introspettiva. Ognuno dei personaggi rappresenta – in quadro evocativo estremamente schematico, per non dire semplicistico – una tipologia umana, caratterizzata da una ben determinata psicologia di riferimento, e da ciascuna di esse è possibile ricavare una prospettiva della storia.
Le architetture del sogno e la dilatazione temporale, che in realtà fin dal suo incipit rivela la propria natura claustrofobica, ha fatto più volte tornare alla mente un altro esempio di “navigazione onirica” recentemente approdata sugli schermi, ossia quella di Inception, catalizzatore di riconoscimenti (tra cui quattro Oscar). Se Nolan però riusciva a districarsi con “coerenza” all’interno dei labirinti della psiche, sottolineandone le imperfezioni e le illeggibilità, Snyder sembra spesso cedere il passo a un approccio meno esaustivo, che fa della mancata finitezza dell’azione il proprio segno distintivo. Ciò che finisce per rendere poco risolutiva questa scelta è la profonda ripetitività della struttura dei combattimenti, che ben presto appaiono profondamente prevedibili e – al di là della grandiosità degli effetti speciali – nemmeno così valorizzati: la natura episodica che sta alla base di Sucker Punch riproduce uno schema che manca di guizzi e che nel lasciare indizi per la risoluzione dell’enigma finisce per tradire sin dal suo inizio la tensione dello svolgimento.
Ad accompagnare i diversi momenti action troviamo l’onnipresente colonna sonora, elemento dell’intero impianto del film, che si avvale della coabitazione di cover di celeberrimi pezzi (tra cui “White Rabbit” dei Jefferson Airplain, “Sweet Dreams” degli Eurythmics, “Asleep” degli Smiths, senza dimenticare riferimenti ai Queen, Beatles, Iggy Pop) e alcuni brani originali (“Army of me” di Björk).
Originale e contraddittorio, il film inanella una serie di citazioni intertestuali spesso pretestuose, che vanno dai rimandi interni alla pellicola a ammiccanti riferimenti più o meno cinefili (da Tarantino fino al Sin City di Robert Rodríguez e Frank Miller), ripercorrendo dei sentieri già esplorati senza riuscire a distaccarsene completamente – basti pensare a The Ward di Carpenter, film non esente da difetti che dimostra però di mantenere la propria compattezza e lucidità lungo tutto il suo sviluppo.
Sucker Punch è un prodotto complesso, che troppo spesso inciampa nella (auto-) referenzialità perdendo di vista i propri obiettivi: il risultato è un ibrido interessante fra un action femminista e una riflessione sul turbamento dell’infanzia, sul potere del sogno e sul valore della speranza. Il rischio è quello di impantanarsi nella melma della sovrabbondanza.
(Priscilla Caporro)
26 marzo 2011