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Con il secondo film Netflix presentato alla stampa si chiude la querelle che ha acceso maggiormente i riflettori sul festival di Cannes in questi giorni – e questo dovrebbe dirla anche lunga sulla qualità media del concorso, ma tant’è… –: The Meyerowitz Stories (New and Selected), il nuovo lungometraggio del newyorchese doc Noah Baumbach (Il calamaro e la balena, Greenberg, Frances Ha, Giovani si diventa), è stato accolto con applausi sinceri ma moderati. In compenso il logo Netflix non è stato ricoperto di fischi, come invece era accaduto con Okja di Bong Joon-ho… Ma andiamo per gradi: dispiace in tutta franchezza che non si abbia l’accortezza di annoverare la filmografia di Baumbach tra gli episodi più felici di un cinema statunitense in crisi d’ispirazione, soprattutto per quel che concerne le generazioni più giovani. Con i suoi quarantotto anni da compiere il prossimo settembre Baumbach rappresenta il punto di passaggio tra gli esordienti che si stanno facendo le ossa e i maestri che si approssimano alla pensione: il suo cinema propone spunti alleniani e li mescola a suggestioni agrodolci, ritratti di famiglie disgregate e disperse, padri assenti e autoritari, figli cresciuti senza punti di riferimento. Il racconto corale attorno al quale si costruisce l’ossatura di The Meyerowitz Stories (New and Selected) non rappresenta l’apice della carriera di Baumbach, ma andrebbe comunque trattato come un oggetto prezioso, delicato e ricco di sfumature. E il cast, che vede anche Dustin Hoffman, Emma Thompson, Candice Bergen e la giovane promessa Grace Van Patten, è pilotato da Adam Sandler e Ben Stiller, entrambi in forma sgargiante, e titolati a puntare alla vittoria personale nella premiazione finale.
In una giornata particolarmente ricca il film di Baumbach è stato seguito a strettissimo giro da Before We Vanish di Kiyoshi Kurosawa, in concorso in Un certain regard, sezione di cui il regista giapponese è un habitué: un classico racconto di fantascienza, con tanto di invasione aliena e germi che si installano negli organismi umani e ne prendono il controllo, nasconde al suo interno una riflessione mai banale e dolorosa sul senso intimo dell’essere umani, sulla necessità di ritrovare non solo il valore della relazione con i nostri simili, ma anche il concetto che risiede alla base di questa necessità. Girato con estrema asciuttezza, ma senza rinunciare a deflagrazioni improvvise e cambi di ritmo, Before We Vanish non è potente come alcuni degli ultimissimi titoli della filmografia di Kurosawa (Creepy, Daguerrotype), ma scava comunque in profondità. E non è cosa da poco…
Non è così bravo a scavare in profondità invece John Cameron Mitchell – qualcuno ricorda il suo Shortbus? Una decina di anni fa lasciò a bocca aperta buona parte del pubblico, sulla Croisette e poi nelle sale di mezzo mondo – che con How to Talk to Girls at Parties traduce in immagini uno spassoso racconto di Neil Gaiman: nell’Inghilterra dell’insurgere del punk tre amici vanno a una festa, senza sapere di ritrovarsi in mezzo a un gruppo nutrito di alieni. Una delle aliene (Elle Fanning, che illumina in modo radioso la pellicola) decide di fuggire con loro per conoscere questo punk. Una storia pazzoide che diventa una vera e propria demenza delirante, mescolando tutto in un caos informe divertente ma che il regista non sembra saper trattare sempre con la giusta cura. Un paio di sequenze in ogni caso possono assurgere a un culto imperituro. Giusta la collocazione nel fuori concorso, con il pubblico del Grand Théâtre Lumière che ha applaudito a scena aperta: la sequenza finale, poi, è così al di là del bene e del male che viene naturale volerle bene.
Siamo poi scappati in fila fuori dalla Salle Buñuel (non proprio la più capiente del Palais, anzi…) perché sempre fuori dalla competizione veniva presentato La caméra de Claire, detto anche – per chi mastica il coreano – Keul-le-eo-ui ka-me-la, primo dei due film di Hong Sangsoo presentati qui al festival: una delizia per gli occhi, racconto minimale ma denso di una grazia soffusa girato lo scorso anno proprio durante il festival. Tra le protagoniste Isabelle Huppert, alla seconda partecipazione in un film del maestro sudcoreano dopo lo splendido In Another Country, che se ne va in giro per la Croisette con una piccola polaroid, immortalando il mondo che la circonda e ricomponendo in qualche modo la storia che si sta sviluppando sullo schermo.
La giornata si è poi conclusa nel migliore dei modi con Happy End di Michael Haneke, racconto della distruzione di una famiglia borghese nella Calais di oggi, messa alla berlina di un sistema che non ha mai funzionato ma dimostra giorno dopo giorno le sue evidenti crepe. Una sorta di compendio del cinema del regista austriaco, con molti elementi peculiari della sua poetica espressiva che irrompono sullo schermo. Straziante e grottesco, privo della benché minima pietà, Happy End è il più serio candidato alla vittoria della Palma, finora. Sarebbe il terzo trionfo per Haneke, un record. Chissà.
(Raffaele Meale)