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All’inizio di questi anni ’10 teneva banco la vicenda musicale e sentimentale di Devonté Hynes (Blood Orange) e Samantha Urbani (piuttosto nota nei Friends e oggi meno da solista). Della parte sentimentale in senso stretto ci è sempre interessato il giusto ma era rilevante che quel loro rapporto fosse così ben inscritto in una scena di contaminazioni, influenze e collaborazioni tra black music, bedroom pop, moda, echi anni ’90, le arti del mixtape e delle canzoni. Il nome di Blood Orange si allaccia a Porches (Aaron Maine) sia per un canale diretto (il reciproco apporto nei relativi album), sia per qualche assonanza personale e, di nuovo, contestuale (Williamsburg e paraggi).
Il connubio musicale e sentimentale del giovane Aaron è stato con la brillante Greta Kline, più nota come Frankie Cosmos, attiva, tra l’altro, nello stesso progetto Porches. Come gli “Hynes-Urbani”, anche i “Maine-Kline” sembra abbiano condotto la loro unione al binario morto e in quest’album non c’è traccia di Greta così come Aaron non sembra contemplato nel cast del nuovo imminente lavoro a firma Frankie Cosmos. Di Porches ci convinse fortemente “Pool”, il secondo album (2016): assetto dreamy, il chitarrismo dei Wild Nothing qua e là, la passione per i toni pastello. E poi linee di basso trainanti, sintetizzatori poco invadenti e l’eleganza dei Tears For Fears senza sovrastrutture. Insomma, un mezzo capolavoro con l’indolenza imperfetta della voce di Maine in primo piano.
Nel terzo album, Porches, in linea con i cambiamenti personali, si reinventa e acquistando una nuova autonomia, fa un album intimo e a due velocità. The House suona meno organico, più personale anche a dispetto dei tanti ospiti (c’è pure suo padre, per dire). Viene dunque meno l’approccio da band e i pattern elettronici sono in bella vista. Il risultato è sempre molto più articolato di quel che può sembrare di primo acchito. Trovano posto anche piccole litanie electro folk, scarne ma piene di parole. Nonostante qualche eccesso col solito autotune, The House riesce ad esprimere un caloroso senso di “solitudine accompagnata”. Come detto, ci sono Dev Hynes (“Country“) e parte del suo “pacchetto” come la voce di BEA1991 e il sax di Jason Arce. Anche Alex G è della partita nell’introduttiva “Leaving Home”. Lo spettro si allarga irrobustendo l’attitudine da chill wave ripulita, tipo il Neon Indian di Era Extraña. Ma la novità più rilevante sta in una sorta di slittamento del decennio di riferimento attraverso la presenza di elementi del pop e della dance anni ’90. E non stiamo per forza alludendo al meglio degli anni ’90. Sì, ci sono inserti che vengono da una tradizione house ma si può scorgere anche qualche azzardato richiamo a un fm pop di 25 anni fa tipo (la spariamo grossa) “Sweet Harmony” dei Beloved. Però qui tutto è funzionale a definire un connubio tra scrittura intima, diaristica e un po’ dolorante con un sovrastrato (apparentemente) effimero. Effimero, probabilmente per una nostra pura convenzione. La bellissima “Find Me”, al contrario di quella musica da cui attinge, non si fa mai acchiappare e la sua assenza di ritornello è la vendetta che ci meritiamo.
Porches si agita nel cercare di plasmare la sua musica e l’ispirazione è alta anche quando la concretezza sembra latitare un po’. Capita anche quando il protagonismo emotivo domina e gli ospiti sono lì più che altro a supportare un disco che è già bello che fatto. Insomma, il miglior album di Porches è un altro ma vale la pena ascoltarlo con questo qui a seguire, quasi per capire come va a finire. L’urgenza di raccontarsi collude piacevolmente con una sorta di “binge listening” da terza stagione della serie.
72/100
(Marco Bachini)