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Una tradizionale storia chassidica ci insegna che è sempre lo straniero a dirci dove giace, nascosto e segreto, il tuo più grande tesoro. Consideriamo quindi stranieri di questa nostra piccola storia chassidica, stranieri al mondo anglosassone e in fondo a noi di lingua italiana, gli Starframes, 6 ragazzi di Napoli che hanno scoperchiato la pentola con dentro il tesoro e hanno mostrato la sostanza del brodo primordiale dal quale sarebbe emerso il brit pop: come fotografare gli Stone Roses un attimo prima che facciano abracadabra e diano vita al mondo.
“Ethereal Underground” non è solo l’espressione felice dell’ attrazione del pop rock italiano per tutto quello che suona anglosassone, ma uno studio musicale sulle invenzione ritmiche di un genere: l’album non sarà un lavoro rivoluzionario né aggiungerà commenti o punti di vista non sufficientemente valorizzati al momento di accostarsi allo snodo della storia del rock britannico della fine del XX secolo; tuttavia sarà un promemoria rigoroso, piacevole da incontrare alle nostre latitudini, ancora più piacevole se gestito con naturalezza, con quel easy feeling che svela quanto lavoro di ascolto e di riproduzione questi ragazzi abbiano macinato. Un promemoria che ricordandoci che la riscoperta culturale degli anni Sessanta fu alla base dell’esplosione mancuriana, ci rivela anche che ancora una volta la nostra eterna, magnifica condanna alla rinascita ripartirà da lì.
Il jolly di questa piccola produzione è la voce nasale di Raphael Bramont che fluttuando per tutte le 10 tracce dentro un acquario cosmico, ha raggiunto una maturità canora che molti interpreti nostrani sognano soltanto. Vuoi per l’effetto shower, vuoi per acidità psichedelica, la voce sembra tornata da un viaggio ai confini dell’universo, riemerge rattristata dalla sua odissea limbica, trasfigurata in un doppelgänger di Brian Molko, che quando inizia il suo fraseggio musicalmente avvolgente in “Origin” apre in noi un sentimento mitologico che ammira un’Arcadia interiore raramente intravista.
L’ascolto è avvolgente e spesso coinvolgente, semplice nella proposta psichedelico-garage di “It Moves Like The World Spins Around”, nel coretto delinquentello di “La Mariee Etait En Noir” che sa tanto di Pink Floyd acidi acidi, nella danza indiana di “Dance On The Greenwich Meridian” che avrebbe fatto ascendere al palco un sacerdote quale Jim Morrison. I due culmini del lavoro degli Starframes sono “Broody Soldier” perla anthem pop-rock e “Aurora Borealis” rarefazione indie all’ennesima potenza. Il lavoro sarebbe potuto finire qui, ma i nostri con “What I Was Made For” e “I’d Never Want You To Say Goodbye” aggiungono altri due punti che di sospensione hanno poco, visto che puntualizzano l’approdo finale del loro viaggio: un pop britannico melodioso, piantato su basso trainante, chitarra saettante, pianoforte che fraseggia un lirismo appassionato. The Charlatans e Oasis che vanno a ripassare la lezione.
Gli Starframes, beati stranieri ovunque, hanno con “Ethereal Underground” creato uno di quegli album dedicati ai pomeriggi durante i quali sembra che tutto vada a iniziare di nuovo.
65/100
(Stefania Italiano)
14 Aprile 2011