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La prima cosa che viene da pensare ascoltando “Performer”, questo secondo album di Ben Montero, è che sia arrivato un po’ in ritardo rispetto alla riedizione contemporanea di quella psichedelia che fino a qualche anno fa faceva la voce grossa nel panorama indipendente/underground. Perché è inevitabile sentirci dentro parecchia vicinanza ai Tame Impala di “Lonerism” o alla loro mitosi cellulare, i Pond – ma entrambe le band hanno già preso altre strade. Tuttavia, scrivere che questo disco sia fuori tempo massimo sarebbe un’ingiustizia, e qui sotto spieghiamo il perché.
Prima di tutto, Ben Montero non è l’ultimo arrivato. E non è nemmeno ascrivibile al solo ruolo di musicista. Anzi, è uno che si sta guadagnando un posto sul piedistallo delle attenzioni soltanto ora, dopo anni spesi a lavorare per altri: come turnista per chissà quante band ma soprattutto come fumettista. In entrambe le veci, Montero è capace di esibire uno stile peculiare e personalissimo, che mescola con vivacità la psichedelia e il surrealismo, e in cui i protagonisti del suo immaginario visivo si mescolano a forme, colori ed effetti di caleidoscopi e droghe di varia natura.
In questo senso, “Performer” è il disco che esce per dirci “Ci sono anche io!”, e in maniera molto più efficace dell’esordio “The Loving Gaze” del 2013. Qui ci sono idee ed intuizioni compositive e melodiche che non hanno nulla da invidiare alle band sopra citate. Anzi, l’aderenza ad esse è il segno di una fiera appartenenza ad una scena psichedelica viva e pulsante nella quale Ben Montero ha inciso parecchio in passato, e della quale si fa finalmente portavoce. Questo, e poi il dato più evidente: alla produzione del disco c’è Jay Watson, alchimista psichedelico che proprio di Tame Impala e Pond è membro fondatore – oltre che creatore del progetto solista Gum.
L’album si apre con “Montero Airlines”, che già dice molto da titolo: si decolla. Una mongolfiera colorata e gonfiata di melodie vintage-pop ci solleva in aria per condurci al mondo surreale di Montero, in cui echi e coretti dei Beatles si mescolano a trame seventies più acide o a ballatone soft-rock. Un trip, e non potremmo definirlo in altro modo, della durata di dieci gioielli di canzone. Dagli abbracci eighties di “Aloha” ai momenti (quasi dark-) synth-pop di “Quantify”, da “Caught In My Own World” che non avrebbe sfigurato tra le tracce di “Sgt Pepper’s” o nella discografie di Ariel Pink a “Tokin’ The Night Away” che strizza l’occhio alle cose di Mac De Marco, fino al crooning di “Destiny” o a “Vibrations” che forse è il pezzo più riuscito dell’album, un piccolo anthem psych-pop che è difficile staccarsi dalla testa.
Insomma, non è certo il disco che aspettavate di più, questo “Performer”. Probabilmente non sapevate nemmeno dell’esistenza di Ben Montero e del suo universo di suoni cangianti e colori ad alta saturazione. E proprio per questo dovreste conoscerlo, ascoltarlo, godervelo.
76/100
Enrico Stradi