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Ogni nuova uscita dei Titus Andronicus è intrinsecamente oggetto di accesi dibattiti, ed un quinto album di sette brani della durata media di sei minuti nel 2018 – a tre anni di distanza dai ventinove che componevano l’impressionante “The Most Lamentable Tragedy” – non può fare eccezione. Qui si parla di una band che non conosce le mezze misure e tantomeno fa mistero delle proprie influenze. Da ascoltare più con il cuore che con la testa: come i Clash, tanto attivi politicamente quanto musicalmente sfuggenti al presunto genere di appartenenza punk-rock. Ne è estrema riprova questo “A Productive Cough”, realizzato con a fianco il fedele Kevin McMahon.
Innanzitutto l’attuale concept di Patrick Stickles e soci mi ha ricordato quello di due lavori prodotti a cavallo degli anni sessanta e settanta, vale a dire “Everybody Knows This Is Nowhere” di Neil Young e “The Wild, The Innocent & The E-Street Shuffle” di Bruce Springsteen. I punti in comune sono tanti, a cominciare dalla tracklist formata da sette brani, dove l’omaggio a New York presente a chiusa del secondo disco del Boss è qui il primo singolo estratto – la solenne e pianistica “Number One (In New York)”, o piuttosto gli accordi della rauca “Home Alone” così vicini a quelli di “Cinnamon Girl” dell’artista canadese. La triade di mostri sacri si completa con il buon Dylan nella ripresa di “(I’m) Like A Rolling Stone”, notevole per l’interpretazione molto passionale di Stickles e il caustico finale à la “Exile On Main Street”: ecco delineata a grandi linee una raccolta rock dai toni classici e proletari, ma non è tutto qui.
Nella doppietta “Real Talk”/”Above The Bodega” si entra in territori diversi più legati al combat-folk e al soul grazie al massiccio uso di ottoni, quasi che Shane Mac Gowan interpretasse le canzoni di Van Morrison. “My right arm, I dedicated to that noble cause, To dismantle authority and nullify all laws” canta infine l’ospite Megg Farrell in “Crass Tattoo”, a sottolineare il messaggio forte e chiaro di cui si fa portatore “A Productive Cough”, un lavoro quadrato ma alle volte eccessivo e ridondante.
65/100
(Matteo Maioli)