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Nei festival, come nella vita, ci sono giornate fortunate e giornate sfortunate. Nelle prime è possibile imbattersi uno dopo l’altro nei nuovi film di Jean-Luc Godard e Jia Zhangke – leggete il diario di ieri, qualora ve lo foste persi – e pensare che c’è ancora speranza, almeno per il cinema. Nelle giornate sfortunate, al contrario, viene da rimpiangere perfino l’acquazzone che ci colse di sorpresa mentre eravamo in infradito e calzoncini. Come si sarà potuto capire, il 12 maggio 2018 al Festival di Cannes non passerà alla storia come una di quelle giornate in cui perfino le nuvole sembrano sorridere. Certo, c’è stata la sorprendente conferenza stampa di Godard, con il maestro francese che ha ribadito la sua superiorità teorica (qualcuno osava dubitarne?) parlottando con la stampa dallo schermo di un cellulare. E certo, ancor più, c’è stata la proiezione dell’applauditissimo Girl del belga Lukas Dhont, che sembra proiettato fin d’ora verso la conquista della Caméra d’or, il riconoscimento riservato alle opere prime. Ma in entrambi i casi non eravamo presenti. Non eravamo alla conferenza stampa, rituale che abbiamo sempre schivato con una certa dose di maestria, e abbiamo anche perso – causa accavallamenti vari e impegni di scrittura che prima o poi bisogna affrontare – il film di Dhont che, per la cronaca, narra di un giovane ermafrodito che sta affrontando l’operazione per il cambio di sesso.
In compenso, si fa per dire, tutta la giornata era stata pensata a uso e consumo della programmazione in serata al Marriott di Mandy, opera seconda dello statunitense di origine greca – e nato a Roma, per di più – Panos Cosmatos. Perché mai, direte voi? Perché un bell’horror in chiusura di giornata è sempre piacevole, perché il trailer sembrava promettere qualcosa di decente e perché il protagonista è l’amato Nicolas Cage, uno che viene voglia di difendere anche di fronte alle più sonore stupidaggini cinematografiche, nelle quali con una certa regolarità temporale si trova a lavorare. Il problema è che Mandy non è solo un film “brutto” o sciocchino. No, dall’alto della sua prosopopea si trasforma in un fastidioso mattone indigeribile, un giocattolone che non fa ridere e che vorrebbe riuscire a fondere al proprio interno un po’ di tutto, da Lynch a Sam Raimi, da Nicolas Winding Refn a Rob Zombie, passando perfino per un piccolo scippo al Clive Barker di Hellraiser. Il tutto per raccontare di un uomo che si vendica degli assassini della moglie. Trama che più basica non si può, nessun approfondimento psicologico ed emotivo dei personaggi, tante immagini laccate per giocare a fare l’autore e un vuoto pneumatico di idee e di senso spaventoso. Davvero incomprensibile non solo la sua presenza al festival, ma proprio la sua ideazione. Una visione devastante. All’uscita della sala l’unico pensiero è stato quello di correre a casa, farsi una birra e mettersi sotto le coperte. Ci sono giornate, nei festival come nella vita, che nascono davvero sfortunate…