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Diario 17 maggio 2018
Ci si sta avviando verso la conclusione di questa settantunesima edizione, ma mancano ancora da sparare alcuni piccoli, medi e grandi fuochi d’artificio. Il più grande è apparso nella splendida cornice mattutina del Grand Théâtre Lumière e batte bandiera tricolore: si tratta, ma lo avrete già capito, di Dogman, il nuovo film diretto da Matteo Garrone. Accolto tra meritatissimi applausi e già uscito nelle sale italiane – quindi nei prossimi giorni recatevi nel cinema più vicino che lo programma e godetevelo sul grande schermo – Dogman è una personale e infedele rilettura della vicenda del Canaro, che scioccò Roma un trentennio fa. Dolorosissimo e viscerale, dominato da un pietismo mai cristiano ma tutto terraceo e da un’ironia quasi subdola, che gioca sul crinale del grottesco, il nuovo film di Garrone colpisce alla mascella con una potenza inusitata. Dopo l’ottimo Lazzaro felice di Alice Rohrwacher la conferma che a Cannes l’Italia non è venuta per fare da spettatrice, anche se si vocifera che le scelte della giuria si stiano orientando verso altri lidi. Peccato, nel caso fosse vero, per Garrone che meriterebbe di raggiungere la Palma sfiorata in più di un’occasione – la più clamorosa con Gomorra, nel 2008.
La giornata tutta italiana è proseguita con Troppa grazia, nuovo capitolo nella filmografia di Gianni Zanasi (perso, lo recupererò a Roma nei prossimi giorni o al momento dell’uscita, per ora fissata a novembre), e anche con il bel cortometraggio La lotta firmato da Marco Bellocchio: un’analisi dell’Italia contemporanea che parte da una riflessione sul tempo e immagina una sovrapposizione spazio-temporale tra l’oggi e il periodo della lotta partigiana per la liberazione del paese dal nazi-fascismo. L’ovvia conferma del talento sconfinato di uno dei più grandi maestri di cinema degli ultimi cinquant’anni. Nel pomeriggio è stato possibile recuperare in Salle Debussy, per Un certain regard, il bizzarro In My Room del tedesco Ulrich Köhler, compagno di vita di Maren Ade che qui a Cannes pochi anni fa presentò in concorso Vi presento Toni Erdmann: In My Room ipotizza un giorno in cui tutti gli esseri umani scompaiono di colpo, eccezion fatta per un giovane uomo che inizia a vagare passando di mezzo di locomozione in mezzo di locomozione fino a trovare pace (momentanea) in una casupola nelle campagne. Stranissimo esempio di cinema sui corpi dispersi in uno spazio privo di umanità, In My Room non manca di difetti e passaggi a vuoto, ma è senza dubbio una visione interessante. Dannosa, prima ancora che priva di interesse, è stata invece la visione di Capharnaüm di Nadine Labaki, presentato in concorso. Nel racconto del sottoproletariato del Libano, abitato da libanesi o da immigrati più o meno clandestini, Labaki sfodera tutta la retorica benpensante di chi getta uno sguardo dall’alto sul terzo mondo (economico, visto che anche la regista è libanese, ma ovviamente della società “bene”). Non manca proprio nulla, dagli infanti sfruttati ai genitori che vendono le figlie undicenni in sposa, dalla clandestina etiope che cerca di salvare il proprio pargolo all’ignoranza religiosa dilagante, sia cristiana che musulmana. Inaffrontabile, indigeribile, devastante e ricattatorio. Sarà Palma?
Diario 18 maggio
Una produttrice di film porno gay sul finire degli anni Settanta, un serial killer che miete vittime proprio nell’ambiente. Yann Gonzalez fa il suo esordio nel concorso di Cannes (la sua opera prima Les rencontres d’après minuit nel 2013 prese parte alla Semaine de la Critique) con Un coteau dans le coeur, un giallo che si ispira a Dario Argento per la struttura thriller e gioca con gli stilemi del cinema pornografico, in modo consapevole e (auto)ironico. Ne viene fuori una creatura bizzarra, del tutto lontana dalla prassi e che viene voglia di difendere nonostante sia profondamente incompiuta e a tratti – nella parte centrale del film – anche piuttosto ripetitiva. Comunque qui sulla Croisette ci si divide tra chi lo ha odiato con tutto il cuore e chi invece lo idolatra: tenendo una posizione mediana, come quella appena espressa, si rischia di apparire come la vera anomalia. Misteri – ma neanche tanto – della critica.
In tarda mattinata c’è stato modo di recuperare Mirai of the Future, il nuovo parto creativo del regista nipponico d’animazione Mamoru Hosoda (suoi i vari La ragazza che saltava nel tempo, Wolf Children, Summer Wars e The Boy and the Beast). La storia parla del piccolo Kun, un bimbetto il cui mondo viene sconvolto quando in casa arriva la sorellina neonata, Mirai: sarà la Mirai adolescente, che gli appare davanti agli occhi in un completo superamento dello spazio-tempo, a insegnare al piccolo il valore degli affetti, della crescita, della maturazione e del significato di nostalgia. Non ai livelli dei titoli già citati, ma Mirai of the Future è l’ennesima conferma del talento di Hosoda, e della sua straordinaria capacità di lavorare la materia cinematografica in forme universali e fantasmagoriche allo stesso tempo. Forse un po’ si abusa di minimalismo, in questo caso, ma il piacere della visione non viene messo in discussione.
Intanto arrivano in primi premi della selezione ufficiali, quelli di Un certain regard, e come d’abitudine vince il film che si dava per scontato non avesse possibilità di vittoria… Ecco dunque che la sezione se la aggiudica Border del danese di origine iraniana Ali Abbasi, di cui scrissi nel diario del 10 maggio. Se in serata è stato presentato l’ultimo titolo in corsa per la Palma d’Oro, The Wild Pear Tree del turco Nuri Bilge Ceylan (che però ho saltato per ragioni di orario), nel pomeriggio gli accreditati hanno incontrato con lo sguardo Ayka del kazako Sergej Dvortsevoj. E non è stato un incontro fortunato, purtroppo. Una ragazza kirghisa immigrata clandestina a Mosca ne passa di tutti i colori per via della sua condizione sociale: Dvortsevoj sembra sguazzare in tutta questa miseria umana, e filma con un nervosismo retorico e ai limiti della sopportazione. Cinema del dolore di cui si potrebbe fare tranquillamente a meno. Difficilmente andrà a premio, ma non si può mai dire… Comunque lo si scoprirà a breve, con la cerimonia di conclusione che metterà la parola fine sulla settantunesima edizione di un festival che si dimostra sempre in forma altalenante. Ma conviene fare buon viso a cattivo gioco.