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Sette dischi di musica psichedelica per sette giorni della settimana. Il nuovo capitolo di BRAINBLOODVOLUME, la rassegna curata da Emiliano D’Aniello per questo fantastico micro-cosmo che poi sarebbe Kalporz.
Benvenuti.
SLEEP, “The Sciences” (Third Man Records, 2018)
Questo disco qui si può ascrivere a quella categoria dei ritorni imprevedibili. Certo, gli Sleep (anno di fondazione 1990 a San Jose, California) si sono riuniti già da un bel po’ di tempo, specificamente una decina di anni e dal 2010 hanno una nuova formazione stabile con l’aggiunta agli storici Al Cisneros e Matt Pike del batterista Jason Roeder dei Neurosis, ma un nuovo disco costituisce sicuramente un evento. Soprattutto considerando come le pubblicazioni del gruppo siano state finora centellinate, circondando di un alone mitico sia il trio che la loro stessa discografia, vedi la storia di Jerusalem/Dopesmoker (praticamente due versioni differenti di quello che poi sarebbe uno stesso LP e che doveva consistere in una sola lunga traccia di sessanta minuti) che poi è la vicenda centrale attorno alla quale si sviluppa la storia degli Sleep.
Una storia che però ora si rinnova con questo disco intitolato “The Sciences” e pubblicato su Third Man Records lo scorso 20 aprile. Registrato agli Snarkbite Studios di Oakland in California (praticamente nell’area di San Francisco) con la collaborazione di Noah Landis, il disco è sicuramente molto più convenzionale rispetto a quel progetto monumentale e oggetto di culto che poi sarebbe il già citato “Dopesmoker” e sostanzialmente si distingue per avere quegli stessi connotati che potrebbe avere avuto l’ultimo disco degli Earthless o comunque mescolando una certa attitudine stoner-rock acida con la componente sludge e post-hardcore dei Mastodon oppure degli stessi Neuroris. I Melvins di King Buzzo.
Chiaramente atteso come la venuta di un messia dagli storici appassionati, il disco è sicuramente di un buon livello, ma comunque neppure eccelso e riconoscibile per quello stile monolitico del sound del gruppo, le virate juggernaut imponenti del suono delle chitarre e qualche spacconata da guitar-hero che costituisce un vezzo di cui chi proviene o gira nel mondo del metal o affine non può proprio fare a meno. Acidissimo e allo stesso tempo viscerale, persino carnale, una specie di “Mimic” di Guillermo del Toro. Nel bene e nel male.
WOODEN SHJIPS, “V.” (Thrill Jockey Records, 2018)
Ritornano i Wooden Shjips e confermano con questo disco (il quinto disco in studio, registrato ai Type Foundry Studio di Portland in Oregon con la produzione di Cooper Crain) che quello smalto dei giorni migliori e che ci aveva fatto innamorare del sound ossessivo e ipnotico del gruppo di Ripley Johnson, uno dei “guru” della psichedelia di questi anni, appare oramai essere stato superato da un orientamento meno cosmico e contaminato sempre di più da quel mood più accattivante e easy-listening già proposto dal leader del gruppo in compagnia con la sua compagna Sanae Yamada con il progetto Moon Duo.
Ma c’è di peggio. La sensazione che i Wooden Shjips si sovrappongano ora all’altra creatura di Ripley Johnson e che il confine tra i due progetti sia (almeno per quanto riguarda le produzioni discografiche) sempre più sottile oppure definitivamente azzerato, dopo il mezzo flop di “Back To Land” spingono il gruppo a ricercare disperatamente nuove soluzioni che rendono “V.” (Thrill Jockey Records) un disco che a questo punto definirei “infelice”. “Eclipse”, “Golden Flower”, la ballads anni settanta con reminiscenze disco “Already Gone” suonano tipicamente Moon Duo, ma “In The Fall” è un tentativo parodistico mal riuscito del sound Acid Mothers Temple; “Staring At The Sun” e “Ride On” due pretenziose ballads che qualcuno definirebbe epiche, ma che sono invece semplicemente noiose e se la noia è l’unica risposta alla musica pop, allora a questo punto arrendiamoci e diamo ragione a chi ripete da quaranta-cinquanta anni quello stesso mantra che il rock sarebbe morto, bla bla bla. Per fortuna però non è così. Così come si può fare della musica psichedelica che abbia un certo groove e ballabile senza essere ripetitivi e senza fare finta di essere dei noiosissimi barbuti per darsi un certo tono. Quindi adesso prendete questo disco, buttatelo via e tirate fuori dalla vostra discoteca personale qualche cosa di George Clinton tipo “Maggot Brain”, “One Nation Under A Groove”, “Mothership Connection” e sparatevi un bel trip.
VIRGINIA TRANCE, “Virginia Trance” (BYM Records, 2018)
L’uscita di questo disco è passata abbastanza inosservata nel mondo del rock neo-psichedelico, per lo più impegnato negli ultimi mesi a stare dietro a uscite più o meno pompate tipo il debutto dei MIEN di Alex Maas (Black Angels) uscito su Rocket Recordings in aprile oppure tutto il giro incredibile di pubblicazioni della Fuzz Club Records. Pochi hanno di conseguenza attenzionato e dedicato il giusto merito alla bellezza di questo disco di debutto dei Virginia Trance uscito il 26 gennaio per l’etichetta cilena BYM Records (quella lì dei Follakzoid tanto per intenderci).
Praticamente il progetto solista di Ryan Scott Davis (Images, Psychic Ills), questo primo LP eponimo consta di nove canzoni registrate e mixate in tre sessioni tra l’estate del 2014 e l’inverno del 2015 a Brooklyn, NY presso l’ex spazio DIY. Ryan ha scritto tutte le canzoni da solo durante un periodo in Arkansas passsato con la moglie: sono state proprio queste ambientazioni, lontane dal mondo cittadino e i panorami urbani, a ispirare questa serie di ballads psichedeliche nello stile garage pop Velvet Underground oppure, ricercando qualche parallelo negli ultimi anni, tipo i francesi Herman Dune. Registrato con la collaborazione in primo luogo di un grande amico di Ryan, cioè RJ Gordon (Baked, Titus Andronicus), nel disco suona un po’ di bella gente come il bassista Jarred Joly e il batterista Booker Stardrum. Il mixing è di Tres Warren (sempre Psychic Ills) e il mastering di un big come Matt Valentine.
Assolato, piacevole, accattivante, “Virginia Trance” è veramente un bel dischetto di pop psichedelia pieno di groove, voci riverberate, chitarre che suonano come le gocce di rugiada al mattino e che vi cala in una dimensione di assoluto relax proprio come alcune delle ballads dei già richiamati Velvet Underground di “VU” (1969) oppure “Loaded” (1970). Promosso.
SHERPA THE TIGER, “Great Vowel Shift” (Fuzz Club Records, 2018)
Questo disco lo ho ascoltato dopo essere stato indirizzato dalla “nostra” simpaticissima e brava Monica Mazzoli. Si tratta praticamente di una novità per quello che riguarda le pubblicazioni su Fuzz Club Records e questo sia perché è un nome diciamo praticamente “nuovo”, ma anche perché sia la provenienza geografica che il sound sono in qualche maniera inediti. Provenienti da quell’altra parte di quella che una volta era la cortina di ferro, i Sherpa The Tiger sono un gruppo proveniente da Leopoli, Ucraina e formato dal duo composto da Artem Bemba e Andrii Davydenko e poi ampliatosi con l’allargamento al batterista Yurii Khomik e al chitarrista Mykhailo Kanafotskyi.
Il disco si intitola “Great Vowel Shift” ed è uscito lo scorso 18 maggio ed è stato fondamentalmente costruito sul gruppo su una “spina dorsale” che è costituita da un synth sovietico degli anni ottanta, l’Elektronika EM-25, e un organo elettrico fine anni ’70-inizio anni ’80, un Vermona Formation 2, prodotto nella Repubblica Democratica Tedesca. Queste cose, si sa, hanno sempre una certa presa come estetica su un determinato pubblico, la città di Berlino ci ha costruito un vero e proprio business e ha fatto di quella parte, una volta “grigia” della capitale tedesca, una sua icona e meta di pellegrinaggio per i giovani di tutto il mondo. Nel caso di questo gruppo sarebbe tuttavia sbagliato parlare solo di estetica, perché “Great Vowel Shift” (cinque tracce in tutto per una durata di circa mezz’ora) è un disco invece che ha dei contenuti che pure se potrebbero apparire poco seriosi (be’, alcuni suoni di “Golden Ratio” si potrebbero comunque avvicinare a determinati momenti ambient diciamo colti), sono comunque meritevoli di grande interessi e tra groove funky spaziale quasi derivativo da esperienze come una Motown Records in acido fino al giro George Clinton e chiaramente marcato di loop kraut-rock, ma soprattutto giocosità Yellow Magic Orchestra e disco-music anni settanta, sono forse tra le cose più orecchiabili e ballabili possiate ascoltare in questo periodo. Giustamente vintage, ma comunque funziona benissimo e la ripresa di determinati suoni qui non ci appare tutta una plateale messa in scena, ma giusto e sano divertimento.
BONNACONS OF DOOM, “Bonnacons Of Doom” (Rocket Recordings, 2018)
Questo qui è un disco che aspettavo da mesi e che alla fine non ha deluso le aspettative e si rivela anche più sorprendente e spettacolare di quanto me lo aspettassi. Bonnacons of Doom è il primo LP eponimo di un collettivo sperimentale di musicisti misteriosi (durante le loro performance dal vivo, che sono praticamente una specie di rappresentazioni teatrali drammatiche secondo uno stile devozionale alla cultura classica) provenienti dalla regione del Lancashire e dello Yorkshire e che hanno scelto Liverpool come loro base operativa. Se questa descrizione prima descrizione può anche solo lontanamente farvi pensare ai Goat, non siete completamente fuori strada: sebbene il sound sia differente, resta la componente “mascherata” e quella lì spiritualista per un gruppo che anche in questo caso concepisce la propria musica come l’esecuzione di un vero e proprio rituale.
La loro concezione del rituale così come della psichedelia, come si evince ascoltando il disco (composto praticamente da cinque lunghe tracce), è differente da quella dei Goat. Intanto per il tipo di suoni, che qui non hanno nessun legame con quella free-form quasi “zappiana” né tanto meno riferimenti al sound del continente africano: la musica sviluppata nell’album ha un carattere distorto, rumoroso, noise e avvolto da un certo sciamanesimo drone e post-industrial che lascia immaginare riti del tempo futuro e superstizioni come quelle che avvolgono il settore di Micogeno su Trantor, il pianeta imperiale dell’immaginario di tanti romanzi di fantascienza di Isaac Asimov.
Registrato presso il Suburban Home Studios del frontman degli Hookworms (MJ) a Leeds praticamente in un’unica sessione e con in aggiunta membri di Mugstar, Forest Swords, componenti della band di Jarvis Cocker e Youthmovies, questo disco non poteva che uscire su Rocket Recordings (sicuramente una delle etichette che non ha mai paura di osare) e se tanto mi dà tanto, mi sa che difficilmente potrà non essere per gli appassionati al genere psichedelico, uno dei dischi dell’anno. Se poi continueranno a rivelarsi tanto sorprendenti in futuro, si vedrà, ma per ora va benissimo così.
NEST EGG, “Nothingness Is Not A Curse” (Fuzz Club Records, 2018)
Non ricordo se anche questa affermazione si debba far risalire a Julian Cope (molto probabile) ma sostenere che i dieci minuti di “Hallogallo”, la traccia di apertura del primo LP eponimo dei Neu! (1972) siano praticamente i più importanti della storia del rock e la principale influenza di generi come il proto-punk e tutto quello che è seguito, è qualche cosa che penso metta d’accordo praticamente ogni ascoltatore. Va di conseguenza che ritroviamo quella stessa aggressività e quello stesso piglio in un sacco di produzioni discografiche e poi in particolare dalla riscoperta della kosmische musik a partire dalla fine degli anni novanta e nel boom del genere neo-psichedelico, ma parliamo di qualche cosa che non costituisce ovviamente lesa maestà. Del resto Massimo Troisi ne “Il postino”, rivolgendosi a Philippe Noiret (che nel film interpretava il grande Pablo Neruda), dice che la poesia non è di chi la scrive, ma “è di chi gli serve” e alla fine ha ragione.
I Nest Egg (Harvey Leisure, Ross Gentry, Thom Nguyen) sono tre ragazzi di Asheville nel North Carolina. Il gruppo si è formato nel 2011 e dopo la pubblicazione del primo LP (“Respectable”, 2015), entra ora nella scuderia della Fuzz Club Records e pubblica “Nothingness Is Not A Curse” L’ispirazione come detto si fa risalire principalmente al sound ossessivo dei Neu! ma va detto che questi tratti sono sviluppati in maniera sicuramente meno cosmica e densa che secondo il modello fornito dalla coppia formata da Michael Rother e Klaus Dinger, così diventa difficile parlare propriamente di kraut-rock. Non manca tuttavia quel classico “motorik” 4/4 proposto in pezzi come la traccia introduttiva “DMTIV” o in maniera più convincente in “Cognitive Dissonance” e combinato a un sound delle chitarre che è tagliente come lame e riff elettrificati che sfuggono rapidi sulle linee marcate di basso e batteria: così va da sé che pezzi come “Print – Process – Repeat”, “Denied Doctrine” e “Long Night Outside” abbiano un sound più tipicamente garage e post-punk, che magari può richiamare ai Thee Oh Sees resi in una versione più trascinata e dove il furore psych invece che nella frenesia di pochi istanti, si brucia in prolungate (persino esasperate, nel caso della traccia conclusiva “Nothingness Is Not A Curse”) estensioni del suono delle chitarre. Il risultato è un disco che definirei semplicemente buono, anche se non particolarmente originale e meno coinvolgente di quanto avrebbe voluto essere se ci fosse stata una maggiore sicurezza nelle diverse scelte sul piano stilistico e delle composizioni.
OUR SOLAR SYSTEM, “Origins” (Beyond Beyond Is Beyond Records, 2018)
Uno dei collettivi più potenti della scena contemporanea psichedelica nel continente europeo, gli Our Solar System di Stoccolma, Svezia si potrebbero definire un gruppo che combina quella che veniva riconosciuta come kosmische musik a finalità quasi di tipo scientifico e didascalico. In questo senso quello approccio cosmico e meditativo si può dire che ti spinge quasi a interrogarti in qualche modo sul tema trattato e su cui si concentra l’opera stessa a livello concettuale e che pure qui si dipana su temi complessi e che noi comuni mortali (non avendo nessuna cognizione specifica in campo scientifico) possiamo solo trattare con quella che un addetto ai lavori potrebbe con una criticità forse eccessiva, definire superficialità e/o sufficienza. Ma poco importa. Anche perché fondamentalmente siamo qui per parlare di musica e allora…
Già con il disco precedente (“In Time”, 2016) questo misterioso collettivo dedito a riti celtici e culti religiosi e druidismo, affrontava quei concetti cari ad Albert Einstein di spazio e tempo, relativismo della massa, equivalenza tra massa e energia (cioè E = mc al quadrato) e quindi in qualche modo spingeva nella direzione di andare letteralmente al cuore dei temi che sono stati poi dipanati nel tempo prima dalla lezione dei compositori minimalisti e d’avanguardia e poi in maniera parallela nei paesi del Nord Europa tra cui principalmente proprio la Svezia (oltre che la Germania). Senza girarci ulteriormente attorno, diciamo che con “Origins” il collettivo va direttamente al cuore della questione e in un magistrale album diviso in due atti (il primo imperniato sulla lunga space opera traccia “Vulkanen” e il secondo diviso tra le sonorità esotiche e avant-jazz di “Babalon Rising”, l’elettronica polifonica motorik 4/4 di “En Bit Av Det Tredje Klotet”, il minimalismo di “Naturlight Samspel” e lo sciamanesimo kraut di “Monte Verita) supera la grande qualità di ognuna delle sue produzioni precedenti, regalandoci quello che per gli appassionati del genere potrebbe pure rivelarsi come uno dei dischi dell’anno.
Avvicinato tanto ai Neu! quanto ai Polyphonic Spree, questo gruppo dei due costituisce forse una specie di sublimazione in un trionfo di gioia cosmica che qui diventa un vero e proprio tributo alla vita e alla ricerca di ognuno di quello che è il suo spazio nel nostro sistema solare e sul pianeta Terra. Uno spazio che ognuno di noi merita di avere e di riconoscere come suo proprio e come diritto al quella meraviglia che è l’esistenza.
(Emiliano D’Aniello)