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In occasione dei 30 anni della Sub Pop uscirà anche un libro dedicato alla casa discografica di Seattle, intitolato “Oltre i Nirvana – Sub Pop: storia di una casa discografica dal 1988 sull’orlo della bancarotta”. L’autrice è Valeria Sgarella: giornalista professionista dal 2000 che ha lavorato a MTV poi in qualità di speaker, autrice e curatrice di programmi, corrispondente da Londra e inviata alla Mostra del Cinema di Venezia (per Play Radio, Radio 24, R101). Ha scritto – e scrive – di musica e spettacolo per Maxim, Donna Moderna, Vanity Fair, Rockit, il Mucchio, Humans Vs Robots.
Valeria nel 2017, dopo un lungo viaggio a Seattle alla ricerca di testimonianze, ha pubblicato il suo primo libro: “Andy Wood, l’inventore del grunge” (Area 51 Edizioni / Ledizioni), e ora – sempre su Seattle – ha approfondito la storia della Sub Pop.
Abbiamo pensato fosse perfetto porle qualche domanda nell’ambito del mese kalporziano dedicato alla Sub Pop (il progetto “Oltre i Nirvana” è in crowfunding: si può partecipare fino al 26 agosto a questo link).
Quale è stato il “la” che ti ha fatto decidere di scrivere “Oltre i Nirvana”? Parrebbe comunque una continuazione naturale dopo “Andy Wood, l’inventore del grunge”, o no?
Andy Wood è stato una bellissima avventura che nasceva dalla necessità di scrivere il tassello mancante di una grande storia. Questo libro è nato da un’altra esigenza: quella di capire come potesse l’etichetta che ha sdoganato l’ultima grande rivoluzione rock della Terra, non solo sopravvivere, ma continuare a farsi portavoce di nuove generazioni e nuove tendenze. Il tutto rimanendo praticamente uguale a se stessa.
Qual è stato il metodo per reperire le notizie e le fonti sulla Sub Pop?
Quello più banale e tradizionale per un giornalista: studiare, andare, chiedere.
Quando il mio editore (Le Edizioni del Gattaccio) mi ha approvato il progetto, ho contattato Megan Jasper, vicepresidente di Sub Pop. Le ho detto che avrei voluto raccontare la storia dell’etichetta attraverso le voci di chi l’ha fatta. Lei mi ha detto: “Ci hanno provato in tanti, non c’è riuscito nessuno. Ma ok, ti aiuto”. E mi ha aperto ogni porta. Non solo: mi ha seguito passo-passo attraverso lunghe telefonate via Skype. Qualche mese dopo, in estate, sono tornata a Seattle e ho visitato la sede. Mi hanno accolto come se fossi una collega. Lì ho parlato lungamente con Jonathan Poneman. Poi ho preso un idrovolante e sono andata sull’isola di Orcas a intervistare Bruce Pavitt. Quello è stato senz’altro l’evento più eclatante di tutto il lavoro di ricerca. Un viaggio che non dimenticherò mai. Al ritorno, ho cercato di raccogliere più voci possibili di gente che lavora e che ha lavorato in Sub Pop, o che semplicemente ha gravitato intorno all’etichetta, più membri dello staff che artisti. In molti hanno aderito, altri no, per vari motivi.
Sei stata (e sei in ripartenza) per Seattle… l’influenza della Sub Pop è evidente fin dall’aeroporto dove c’è un loro negozio… in che altro ti è capitata di pensare che la Sub Pop – se credi l’abbia fatto – abbia davvero inciso nella formazione della cultura musicale della città?
La Sub Pop non ha inciso sulla formazione della cultura della città. È la città che ha plasmato la Sub Pop. Fin dai suoi esordi, che sono da collocare all’Evergreen State College di Olympia (capitale dello Stato di Washington), Bruce Pavitt ha insistito sull’identità “regionale” della musica indipendente. Ha fondato l’etichetta per promuovere ed esportare il “regional sound” di Seattle e del Nord Ovest Pacifico. Ancora oggi, la Sub Pop non ha perso l’abitudine di prelevare una buona parte del suo roster da Seattle. Penso a Ishmael Butler / Shabazz Palaces e a THEESatisfaction (che si sono sciolti un paio di anni fa). C’è però un’iniziativa molto bella, la Loser Scholarship, cioè la borsa di studio che ogni anno la Sub Pop mette in palio per tre studenti che dimostrino di contribuire attivamente alla vita artistica del Nord Ovest Pacifico.
Parrebbe che Seattle abbia delle “ondate” musicali… penso chiaramente e in maniera molto spannometrica a Jimi Hendrix, gli anni del grunge e la retromania folk dei Fleet Foxes sul finire dello scorso decennio… ora che sentore musicale si respira?
È un sentore musicale che va di pari passo con il suo cambiamento, che è rapidissimo e spietato. Seattle ora è una delle capitali mondiali della tecnologia informatica e della cosiddetta Internet of Things. Il suo mercato immobiliare è schizzato a livelli impensabili fino a cinque anni fa. Proprio la scorsa settimana è emerso che lo Showbox, uno dei locali storici della città, roccaforte del grunge, ma anche IL live club per definizione (dimmi un nome, del passato o del presente, c’ha suonato sicuramente!) è a rischio demolizione per far spazio a un “condo”, un complesso di appartamenti di lusso. Una notizia che ha creato una grande mobilitazione. Il sentore musicale inteso come “quel che la gente ascolta” è molto difficile da definire per una città che vive ancora molto del suo passato, ma che recepisce tour mondiali in continuazione.
Tornando alla Sub Pop… Pavitt and Poneman sono stati dei visionari o solo fortunati?
Tutto il libro cerca di rispondere a questa domanda. Dunque qui devo essere evasiva per non auto-spoilerarmi!
Nel tuo libro, che purtroppo non ho ancora letto, racconti di qualche grossa difficoltà che ha dovuto superare la Sub Pop per andare avanti?
Se l’avessi letto mi prenderebbe un colpo, in quanto non è ancora uscito e significherebbe che è “leakato”!
Il motto della Sub Pop è “Sull’orlo della bancarotta dal 1988”. E non l’ho inventato io, l’ha inventato Chris Jacobs, loro General Manager, il che la dice lunghissima. Per giunta, amo ricordare che l’apertura della sua sede ufficiale corrispose allo scioglimento della sua unica band, i Green River. Capisci che da qui si poteva solo migliorare.
In un’epoca di pop, e soprattutto di pop dai rilievi molto estetici come va di moda adesso, perché parlare di un’etichetta come la Sub Pop che – ancora – non pare essersi incamminata su questa strada?
In realtà, l’estetica è sempre stata un elemento essenziale della Sub Pop. Fin dai suoi esordi, ha fatto leva su tre aspetti: la grafica, il “business creativo”, e quel ruspante senso dell’umorismo tipico del Nord Ovest Pacifico. Pavitt e Poneman avevano ben presente quale dovesse essere l’immagine dell’etichetta, a partire dal suo logo, dal merchandize (famosissima la t-shirt con la scritta MI DEVI DEI SOLDI, o claim come “Sub Pop: i numeri uno in quantità”), e quella geniale iniziativa che fu il Singles Club, i 45 giri in edizione limitata per gli abbonati. La sfida casomai è stata proprio quella di convogliare l’aspetto comunicativo e grafico nell’era digitale, che ha visto la progressiva mancanza del supporto fisico. C’è da dire però che, da qualche anno, la Sub Pop ha ripristinato la Loser Edition, l’edizione limitata degli album in vinile colorato. La clip della Loser Edition del nuovo album di Father John Misty, “God’s favourite customer” è un ottimo esempio di come la Sup Pop sta continuando a convogliare il suo messaggio originale.
(Paolo Bardelli)