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Nonostante fantasy e fantascienza abbiano occupato un margine ghettizzato nelle mie letture dell’ultimo decennio, una catena imprevista di eventi mi portano a dialogare con una delle grandi signore della science fiction contemporanea. Mi ritrovo sprofondata su una delle immense poltrone di Walden, giovane caffè letterario milanese ispirato alla filosofia radicale di Thoureau, con in mano uno dei libri che più mi hanno scosso negli ultimi anni.
Forse perché Amatka, ultimo romanzo di Karin Tidbeck pubblicato in Italia per i tipi di Safarà, non è esattamente un libro di fantascienza.
Capace di reggersi senza coordinate spaziali né temporali, fa della distopia un mezzo di inevitabile e dolorosa riflessione, ma non è un romanzo filosofico o politico. Non è nemmeno un trattato di linguistica, anche se ruota vorticosamente intorno al cardine della funzione del linguaggio.
Amatka sembra nascere spontaneamente dall’urgenza di dire qualcosa, di parlare perché ce n’è bisogno, di immaginare perché, stretti in una morsa di parole d’ordine e must have, si avverte quasi inconsciamente che il margine dell’immaginazione è uno dei territori più fertili da cui ripartire.
Brevemente: Amatka è una delle cinque colonie fondate dai pionieri in fuga, uomini provenienti da un modo altro non più sostenibile. Amatka, come le altre colonie e ogni cosa al loro interno, è formata da una materia instabile, che ha bisogno di essere continuamente plasmata dalle parole. Questo processo di nomenclatura costante e collettiva richiede uno sforzo e una regolamentazione rigidissima.
Essere un buon cittadino della comune, attenersi con scrupolo alle normative è un requisito fondamentale per la sopravvivenza di tutti. Essere un buon cittadino è ciò che Vanja non riesce a fare. Rispettare gli ordini, mantenersi dentro i binari di una definizione imposta, di un’esistenza programmata: il sistema in cui da sempre non sa inserirsi diventa opprimente dopo il suo trasferimento ad Amatka. Qui, infatti, non può sfuggire all’incontro con un moto germinale che lascia intravedere la possibilità di pensieri (e parole) diverse.
Un po’ affascinata dall’importanza del linguaggio nelle pagine di un romanzo di fantascienza, un po’ incapace di non identificarmi con lo spirito inquieto di Vanja, mi ritrovo a fronteggiare l’incontro con Karin Tidbeck stropicciando il foglio in cui ho annotato le mie domande.
Lei però, come tutti i grandi, ha la capacità di non farti sentire piccola. Il discorso che riporto si svolge con la traduzione paziente di Cristina Pascotto (editrice, traduttrice e interprete), l’attenzione calda del pubblico di Walden e una volontà di comprendersi e di farsi comprendere come poche volte ricordo di aver incontrato anche nei mestieranti della scrittura.
Amatka è un mondo tenuto insieme dalle parole. Parole piene di paura, parole che imprigionano in una forma e non lasciano vie di fuga. Leggendolo, non ho potuto non pensare a una certa logorrea della contemporaneità, dove i fiumi di voci che ci circondano si riducono a slogan, senza possibilità di stratificazione semantica, senza possibilità di scampo. Perciò ti chiedo: da cosa è nata Amatka?
Non avevo in realtà nessun piano preciso, sono solo molto affascinata dal linguaggio. Spesso mi viene chiesto quali fosse i miei intenti o le mie idee politiche scrivendolo, ma si tratta di una semplice esternazione del mio amore per il linguaggio. Vorrei avere qualcosa di più intelligente da dire per rispondere a questa domanda, ma temo che questo libro vada semplicemente considerato come una canzone d’amore per le parole.
E infatti anche questo moto di liberazione ha a che fare con le parole. Questo mondo composto da parole che cristallizzano, ha una controparte in un linguaggio diverso, il linguaggio poetico. Nelle parole di Vanja, Anna di Berols, la poetessa di Amatka, “era come se comprendesse le parole e gli oggetti a un livello più profondo di tutti gli altri”. È come se la poesia sapesse arrivare nel cuore delle cose, per poter poi finalmente liberare tutto il resto. Come è possibile questo? È possibile che una liberazione dalle parole avvenga attraverso altre parole?
Sì e no. Non penso che possa esistere una vera e propria liberazione dalle parole. Come umani, siamo simili a hardware programmati con software linguistici. Quindi, il modo in cui pensiamo processa necessariamente ogni cosa attraverso le parole. Però, penso che la poesia sia uno degli stimoli che possono riprogrammare la nostra mente in modo efficace. Che è quello che Anna fa nel libro: riprogramma la realtà con la poesia. La nostra mente è plastica. Gli studi dimostrano che può facilmente riformarsi da sola, espandersi, creare network durante tutta la nostra vita. Quindi non penso che ci sia un modo per essere liberi dalle parole, ma penso che le parole della poesia possano in qualche modo riprogrammare la nostra mente. Radicalmente. E in questo modo penso che la poesia possa e abbia già, in qualche modo, cambiato il mondo. Nel bene e nel male.
E pensi che questo ruolo di programmazione possa in qualche modo essere svolto da altri linguaggi, da altre forme comunicative? Prendo per esempio le relazioni umani, in particolar modo quelle affettive. Vanja per prima si innamora e parla della sensazione di calore che, nella freddissima Amatka, le proviene dal corpo della persona al suo fianco. E in questo mondo in cui le cose non possono uscire dai loro binari, il linguaggio imprevedibile della fisicità è spesso controllato, ridotto, regimentato.
Questo mi fa pensare immediatamente alla produzione di ossitocina. Fondamentalmente, devi toccare le altre persone per stare bene. Quindi sì, il rapporto affettivo, fisico, è una forma di comunicazione fondamentale, che può “riprogrammarci”. Anzi, è vero che nel libro tutti i rapporti sono regolamentati, ma anche in un contesto in cui le persone sono obbligate a mantenere i rapporti al minimo, non possono fare a meno di averli. È come dire: non puoi chiedere agli esseri umani di smettere di essere umani, cercheranno sempre di creare relazioni. Qualsiasi sia la forma della società in cui vivono, cercheranno sempre un contatto, un significato, un’appartenenza a qualcosa.
L’urgenza che sente Vanja, la necessità di discostarsi da ciò che le è stato insegnato, dalle cose che stanno ferme e sono sempre uguali a se stesse, non è condivisa. Con pochissime eccezioni, quello che si trova ad affrontare è una generale diffidenza. Anzi, una vera e propria ostilità: la popolazione di Amatka è reticente davanti a qualsiasi novità, a qualsiasi cambiamento, perfino i più insignificanti. Quindi, che cosa la porta comunque a combattere per l’urgenza che si sente dentro? Cosa la spinge contro una realtà che va bene a tutti tranne che a lei, senza sapere esattamente cosa sarà dopo e soprattutto sapendo che non sta decidendo solo per sé?
Vanja è stata terribilmente maltrattata per quello che è, quindi ha le sue ragioni personali per non essere d’accordo con il sistema vigente. Da un certo punto di vista, Amatka è una distopia, ma anche un’utopia. È la società perfetta per riuscire a sopravvivere in quel mondo particolare. Questo significa che la maggioranza vive bene. Il problema è che ci sarà sempre una minoranza che paga perché la maggioranza possa avere una vita comoda. Vanja non è riuscita a essere una buona cittadina, quindi deve pagarne le conseguenze. È normale che sogni qualcosa di diverso. Ora, quello che mi importava, scrivendo questo libro, era porre delle domande. Ad esempio: quanto si è disposti a pagare per sentirsi sicuri? Quante persone possono soffrire per la sicurezza e il benessere della massa? E ancora: è sempre giusto fomentare una rivoluzione? E se la maggioranza finisse per soffrire per la liberazione di una minoranza? Non pretendo assolutamente di sapere rispondere a queste domande.
Gli interrogativi che poni all’interno del libro mi sembrano riferirsi a un’umanità in senso lato. Per questo trovo ancora più interessante che tu riesca a parlarne in un mondo svincolato da coordinate spazio-temporali. A questo proposito, vorrei sapere come definiresti il tuo romanzo. Spesso l’ho sentito definire un romanzo politico o sociale. A volte addirittura femminista o “da donne”, ponendo l’accento su una mancanza di protagonisti maschili considerata fuori dall’ordinario. Dal mio punto di vista, lo chiamerei un romanzo queer, scegliendo volontariamente una parola il cui significato attuale è frutto di una riappropriazione. Queer, ovviamente, non in riferimento alla sessualità di Vanja, quanto piuttosto alla sua incapacità di attenersi a un binario dato, all’urgenza che non le deriva da un qualche pensiero programmatico, ma parte dal suo stesso essere.
Mi sembra in realtà che tu ti stia riferendo all’accezione originaria della parola queer, cioè qualcosa di fuori tempo rispetto alla norma. In questo senso, sono d’accordo. Anzi, mi sembra una buona analisi. Vanja – così come Evgen, il bibliotecario – non si sente a suo agio con quello che è o che sente. Non si sente a suo agio nel mondo, per quanto ci provi. Il primo paragone che mi viene in mente è quello con i pancakes. Quando cucini i pancakes, i primi tre sono sempre un po’ diversi dagli altri. Ecco, Vanja e Evgen sono quei pancakes. Ma non ho mai pensato di chiamare Amatka un libro queer. Mi piace questa analisi, ma in qualche modo non vorrei scegliere nessuna etichetta particolare. Significherebbe ridurre il libro a un solo aspetto, dimenticando gli altri. Non c’è un messaggio particolare, non è un pamphlet. Parte da me, da come sono io. È più un’estensione di me che qualsiasi altra cosa.
Questi pancakes mal riusciti, però, sono quelli che alla fine cambiano il mondo. Pensi che ci sia del potenziale rivoluzionario anche in chi è un po’ pancake nella realtà?
Penso che sia proprio lì che la rivoluzione inizia. Penso che la rivoluzione cominci proprio dalle persone che non si sentono a proprio agio nella realtà in cui vivono, che riescono a immaginare un diverso ordine delle cose. Quindi sono assolutamente convinta che la rivoluzione inizi nei pancake malriusciti. Il cambiamento non può essere creato dalle persone che sono felici dello stato delle cose, non avrebbero né modo né motivo per accorgersi dell’esistenza di un’alternativa. Quindi sì, Viva los Pancakes.
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