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Non va molto di moda la musica testosteronica. Inutile indagarlo qui, è appena il caso però di ricordare che l’estetica attuale non contemplerebbe band come i De Staat: non belli, ruvidi, dai suoni enormi, e finanche un po’ machisti. E invece loro sono qui a ricordarci che 1) c’è una cultura trasversalmente europea che sta producendo roba interessantissima e che non proviene dall’Inghilterra (i De Staat sono olandesi), 2) c’è ancora spazio per la musica non accomodante, che spinge su riff pari e potenti, che mescola hard-rock, industrial e techno, 3) l’evoluzione della tecnica non deve trascurare l’elettronica ma può (ancora) farne un uso crossover che prenda il lato intenso di quella e delle chitarre elettriche.
“Bubble Gum” è eccessivo, in molte canzoni davvero si potrebbe storcere il naso per il kitsch che cola dai riff (“Me Time” modello Prodigy-style, oppure “Pikachu” dalle reminiscenze brutte dei Chumbawamba) ma i De Staat non sono accondiscendenti o adulatori, vogliono volutamente dare fastidio alle nostre orecchie. Un po’ come faceva il punk, per certi versi, se ci pensate. Non si sta facendo un parallelo, attenzione, anche perché i De Staat suonano in ogni caso lungo coordinate già abbastanza definite (dai Soulwax in primis, e lateralmente anche dai Prodigy) ma è la loro libertà di andare in retromarcia in un mondo che predilige quadri totalmente sintetici, possibilmente non lineari, un po’ intrippanti e particolarmente minimali, che rende la loro proposta degna di nota.
Se non altro per portare live dei brani che davvero sembrano da pogo spinto e liberatorio, ma non solo. Un singolo riuscito come “Mona Lisa” che riprende gli stilemi classici di brani come “Elephant” dei Tame Impala o finanche “My Sharona” (orrore) potrà durare a lungo nei nostri ascolti, ma soprattutto ci ricorderà da oggi in poi i De Staat fanno sul serio.
74/100
(Paolo Bardelli)