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Esordio di un gruppo molto particolare. Formato da due gemelli italiani (Amedeo e Simone Pace) e da una ragazza giapponese (Kazu Makino) a New York sulle orme sonore lasciate da Sonic Youth e Fugazi, i Blonde Redhead sfornano all’esordio un gruppo di canzoni compatto e granitico. Il nome Blonde Redhead è derivato da una canzone dei DNA, creatura no wave in cui militava Arto Lindsay, in seguito membro di altri gruppi fondamentali dell’alt-rock newyorchese come Lounge Lizards, Golden Palominos e Ambitious Lovers.
L’attacco, dato da una distorsione, da un riff e da una batteria regolare, di “I don’t want u”, mostra già chiari segni di deferenza, soprattutto verso Thurston Moore e soci. Non per niente il produttore è Steve Shelley, batterista dei Sonic Youth, che ha fondato nel 1993 la Smell Like Records – il nome ricorda qualcosa? E questa è l’undicesima produzione.
Le canzoni si appoggiano ancora ad un basso, suonato da Maki Takahashi, strumento che verrà col tempo destrutturalizzato e spesso abbandonato. Molti sono comunque i pezzi d’impatto, a partire da “Sciuri Sciura” per proseguire con “Astro Boy”, “Snippet” fino a terminare con la dolce e malinconica “Girl Boy”, che ricorda da vicino la bossanova e si adagia in fondo all’album, regalando un senso di mesto e riposante tramonto.Dolcezza che appare come elemento deviante e disturbante, visto il poderoso muro di suono che l’ha preceduta, ma che sarà uno dei marchi di fabbrica dei Blonde Redhead, come dimostreranno gli album successivi.
Una prova d’esordio convincente, forse a tratti immatura, ma già consapevole della propria essenza. E basta un brano come “Mama Cita” per esemplificare questa consapevolezza: il gioco vocale fra i due cantanti, che si scambiano le parti inseguendosi e andando quasi a formare una danza canora, con le voci pronte ad accoccolarsi sui riffs quasi a voler annullare la differenza fra voce e musica è bellissimo, emozionante, vibrante. Una rivelazione sotto forma di distorsione.
71/100
(Raffaele Meale)
6 novembre 2002