Un’imponente psychopedia lisergica tra accademia e dadaismo musicale. Un caleidoscopico concept spaziale dalle tinte tragiche. Era da “Zaireeka” che i Flaming Lips non si spingevano così oltre.
Rispetto all’esordio tutta un’altra band. Alla produzione c’è Geoff Barrow dei Portishead e le suggestioni dark si addentrano in paesaggi dagli sfuocati contorni shoegaze.
Gli Animal Collective alle prese con il brano lento. Con una chitarra di meno a fare sound aumenta lo spazio dedicato alle armonie vocali ed i suoni-feticcio riempiono ogni buco.
In “Bitte Orca” si respira aria d’Africa, ma senza tribalismi o facilonerie da cartolina: quando la chitarra di Langhorne alifarkatoureggia e le voci cristalline di Amber Coffman e Angel Deradoorian si incrociano lo fanno per rincorrere grammatiche insolite e con la speranza sempre accesa di battere nuovi sentieri.
Downtempo, gelide drum-machine, sinuosi incastri tra due voci, chitarre essenziali. Una nuova next big thing da Londra. Non sono cool e non somigliano a nessun gruppo anni ’80. Un vero miracolo.
Nei Wilco che si affacciano alla nuova decade c’è una raggiunta maturità, fatta di perfetta padronanza di un vocabolario rock che si è andato ad arricchire sempre più negli anni e ci sono i frutti di quella che è probabilmente la loro migliore formazione di sempre.
Un disco destinato a lasciare il segno, una prova di maturità, degna evoluzione dei due album precedenti.
Una band metamusicale. Forbito commentario musicale del rock indipendente inglese da “Psychocandy” fino al primo dei Suede. Ed il disco suona esattamente come te lo aspetti.
Il tribalismo dei Liars di “Drum’s Not Dead” a braccetto con le paranoie industriali dei Black Dice entrano nel magico mondo della techno ricombinando la formula tendente al post-rock del duo di Bristol.
In terra americana rock e canzone d’autore sono sempre andati a braccetto. In “At the cut” cantante e banda accordano passo e respiro, fondendosi in una sola creatura. La voce sta al centro e la musica le si ritaglia addosso. Un personaggio, Vic Chesnutt, la cui importanza nel panorama rock degli ultimi anni deve ancora essere stimata come merita.
Un folk-pop acustico ed evocativo, fatto di grandi suggestioni e grandissime canzoni. Un viaggio nella tradizione capace di giocare con Nick Drake e Belle & Sebastian.
Un piccolo monumento tascabile all’autocommiserazione poetica, tra Smiths, Pavement e Lemonheads. Il duo di San Francisco ci ha regalato un disco che non dimenticheremo facilmente.
Il secondo album del progetto solista di Bradford James Cox. Una splendida raccolta di ballad malate e stridenti che arricchisce l’affascinante costellazione Deerhunter.
Canzoni che somigliano ad arazzi pulsanti di dettagli decorativi. Il folk più mistico riesce a dialogare con profumi vagamente orientaleggianti e litanie dal sapore precolombiano.
Più che musica fanno “comunicazione stratificata in rima”, raggiungendo vette di assoluta genialità. Un orgoglio tutto italiano di cui essere fieri.
90 minuti e 15 pezzi. Un lavoro sfaccettato, che travalica la definizione di genere. Un calcio al luogo comune, all’indie-rock e ai suoi stereotipi. La band italiana più ambiziosa in circolazione.
Genialità pop macchiata di french touch, parentesi beatlesiane e quadretti indie rock. Come quegli attaccanti a cui bastano cinque minuti. I Phoenix sono così. La buttano sempre dentro.
Al secondo atto il Teatro si confronta con la canzone italiana senza rinunciare al motore noise dei Jesus Lizard. Un disco politico e privato come un romanzo di Fenoglio.
Una proposta musicale sopra le righe, tra l’art pop degli XTC, la nevrosi postmoderna dei Talking Heads, il post-punk di Orange Juice e Josef K. Uno dei migliori album di pop alternativo in circolazione.
Ascoltatelo alle sue condizioni. In cuffia, chiudendo gli occhi, oppure alzando il volume delle casse e serrando le tende. “Monoliths & Dimensions” è per prima cosa un’esperienza.
C’è del marcio in Danimarca? Forse. Sicuramente ci sono i Mew, con le loro chitarre cristalline, le atmosfere dream-pop e vagheggianti reminiscenze prog. Un disco complesso, in cui immergersi diventa necessario e, una volta conosciute le correnti e i flutti, rilassante.
Mister Lif è uscito dalla Def Jux e a mio parere la cosa gli ha giovato. Avrà perso un po’ quell’alone innovativo che circondava le uscite dell’etichetta newyorchese, ma non è che utilizzo l’imperfetto a caso, quindi avete già capito. Il suo terzo disco solista è bello solido e contiene un pezzato come What about us? che a me piace moltissimo. (Fabio Varini)
Un super disco con una mega rooster hip hop all starz vecchi e nuovi (Davide “Deiv” Agazzi)
A dieci anni dall’esordio il nuovo album è quasi una summa del percorso artistico del duo di Glasgow, sospeso fra classicità e modernità del corpo tech-house nel solito magistrale mix di chiari e scuri.
Un album pop ispirato, fresco e leggero. Piccoli inni tascabili, melodie a presa rapida e ballate sghembe. Il paffuto canadese che ora vive a New York ha l’ironia di Randy Newman, la classe di Costello, l’immediatezza di Daniel Johnston e l’istinto lo-fi dei Pavement.
In contrasto con i ricchi ricami del suo album di debutto, “Battle and Victory” (2007), Nancy Elizabeth si è questa volta ispirata al silenzio delle isole Far Øer, della Scozia e di uno sperduto villaggio spagnolo. Un disco contemplativo, in cui la sua voce calda e limpida si adagia tra pianoforte, chitarre, glockenspiel, vibrafono e un Dulcitone di inizio ‘900.
L’inedito sanremese degli Afterhours all’interno della compilation omonima che raccoglie i nomi più illustri del nostro eterno underground.
Il ritorno dell’hip hopparo mascherato. Fra gli ospiti, alla voce Ghostface e Raekwon dei Wu Tang Clan.
Una chitarra, una batteria, il volume sparato a 10, e tutto l’hype possibile di Pitchfork. In teoria dovrebbe bastare. In pratica Post-Nothing, in tutta la sua acerbezza, fa la differenza con le canzoni: imperfette ma freschissime, e soprattutto infarcite di quei furbissimi slogan urlati con gioiosa rabbia adolescente che, se avesse ancora un senso, potremmo tranquillamente scrivere sulla nostra indie-smemoranda. “XOXO some hearts bleed, but my heart sweats”.
Compositori avanguardisti per il pop, per guarirlo dai propri malanni. Come già Jim O’Rourke, Brian Eno e Robert Wyatt a comporre canzonette si è messo anche Andrew Bird.
(15.12.2009)